a cura di Walter Ghidini

Presentazione Artisti

a cura di Walter Ghidini

Verena Daldini

Il linguaggio di Verena non si esaurisce sulla superficie delle sue immagini ma, se compreso, le trasforma, le trasgredisce in una sorta di continuità metamorfica che fa acquisire loro una tessitura insolitamente barocca, proprio per quel caratteristico e continuo involversi in indistricabili labirinti psicologici.
Il lavoro della sua arte è uno scavare interiore, a dismisura, dentro la stessa materia del sensibile e del visibile, fin dentro le similitudini sepolte, invisibili, finché qualcuno non le segnali, ed è proprio perché qui la verità è caduca e basta un alito di vento a spazzarla via che dobbiamo fidarci di essa, altrimenti al suo posto troveremmo solo apparenza.

La tramatura della forma pare dimostrare una volontà espressionistica, forme e cromie sembrano appartenere di diritto al più convinto cubismo grafico e pittorico, ma in realtà il lavoro di Verena viaggia nella direzione della sperimentazione continua che non si omologa a nessuna corrente specifica.

È un gioco, è il gioco delle velature e delle trasparenze che interessa maggiormente l’artista che porta avanti una ricerca continua giocata sulla percezione visiva e materica, come riverbero tattile della poesia della vita.
Alla pittura astratta, che si è fatta anche materica, l’artista sovrappone, alternandole, linee informi e alfabeti fantastici che rassodano l’immagine in giochi visivi raffinati, in un costante e nuovo contrappunto tra interiorità ed esteriorità della visione. Il clima espressivo rimanda a regioni interne della sensibilità e della coscienza, chiuse e impenetrabili, sigillate dal silenzio.

Comincia qui il viaggio tra le simbologie che Verena ci propone, a volte nette a volte sottintese, segno-simbolo di una dicotomia tra la proiezione esterna del sé e il più discosto mondo intimo, sofferto e segreto, luogo di scandagli di una brillante penombra.
a cura di Walter Ghidini

Pietro Masotti

Gran parte di quello che siamo è determinato da ciò che abbiamo vissuto e spesso sono proprio le esperienze più dure a favorire quei cambiamenti che ci consentono di riprogrammare la nostra visione del mondo e di ridare alle cose il giusto valore. Quando i giapponesi riparano oggetti rotti, sono usi valorizzare la zona danneggiata riempiendo le crepe con dell’oro. Si chiama Kintsugi ed essi sono convinti che è proprio quando qualcosa subisce un danno che inizia ad avere un vissuto e per questo diventa più bello e più forte di prima così da essere in grado di iniziare una nuova vita.

Come un coccio giapponese, Pietro Masotti vive oggi quella che lui chiama la sua “terza vita”, quella più matura e consapevole, nella quale si sente finalmente “libero” di vivere il proprio tempo gestendone i ritmi con semplicità d’animo. Grazie soprattutto a se stesso, egli oggi è una persona nuova, più forte e ispirata che avrebbe molto da insegnare sui significati profondi del “vivere” e del “vivere come” ma che tuttavia mantiene un approccio pacato e gentile verso tutto e tutti. 

Quando lo si inizia a conoscere ed a scivolare piacevolmente nella comprensione del suo “fare arte”, tutto avviene con naturalezza ma quello che si scopre dietro il sipario dell’informalità è tutt’altro che banale: è un travolgente trionfo di forti e contrastanti emozioni. Pietro infatti predilige i contrasti ed in particolare quello cromatico tra l’arancione e l’azzurro, colori che, usati nei giusti rapporti quantitativi, danno effetti di solida staticità pur conservando inalterata la propria luminosità ed essenza cromatica. Questa particolare coppia di complementari rappresenta anche, allo stesso tempo, il punto estremo della polarità caldo-freddo e, in definitiva, il più sonoro tra i contrasti di colore. Anche gli impressionisti si accorsero che l’azzurro freddo e trasparente del cielo e dell’atmosfera, assumendo ovunque il carattere di ombra colorata, entrava in contrasto con le calde tonalità della luce solare. L’incanto cromatico dei quadri di Monet, Pissarro e Renoir deriva in massima parte dall’artificioso gioco delle modulazioni di freddo e caldo, caratteristiche che ritroviamo salienti anche nella ricerca artistica di Pietro Masotti.

L’artista Pietro però dispone in maniera innata di tutte queste consapevolezze giacché egli lavora “a braccio”, lasciandosi guidare dall’istinto che regala alle sue immagini fotografiche e ai suoi scritti, un valore aggiunto, quasi un pezzo d’anima. E non è un caso se, come afferma lo stesso artista, per arrivare ad essere ciò che sono, le sue opere devono necessariamente partire da immagini la cui tecnica di ripresa è contraria ai canoni classici, immagini che, se lasciate tali, si definirebbero “brutte” ma sulle quali invece l’artista inizia ad eseguire il proprio Kintsugi personale, perpetrando in questo modo la genesi del suo essere e del suo divenire. 

Tuttora riservato, Pietro Masotti ha però già collezionato importanti apprezzamenti nel panorama artistico locale e d’oltralpe dove ha già tenuto alcune esposizioni personali e collettive che hanno avuto come tema il Tango argentino. Nessuno conosce con precisione l’etimologia del termine Tango, ma se la versione più accreditata indica nel latino tangere (toccare) la più probabile, ecco che nelle opere di Pietro si “toccano” veramente con mano l’eleganza e la la passionalità di questa particolare forma d’arte. Oggi lo ritroviamo spesso, in cerca di nuove ispirazioni, immerso nella natura, nella quale riesce a trovare l’armonia dei colori, delle immagini, dei pensieri e delle emozioni.

a cura di Walter Ghidini

Paola Rezzonico

Il Faust goethiano diceva che nel suo petto abitavano due anime, ma bisogna riconoscere che nel petto dell’artista Paola Rezzonico di anime ne abitano parecchie, perché, nella sua multiforme attività creatrice, si è cimentata con uguale successo in varie forme espressive: pittura, ceramica, incisione, ricamo, fotografia, arte orafa, calligrafia, solo per citarne alcune. Del resto, se chiedete a Paola una classificazione della sua arte, vi risponderà che sceglie di volta in volta la tecnica più adatta alla concretizzazione delle proprie opere, subordinandola al messaggio che sente di dover esprimere. 

La vigorosa poliedricità di Paola Rezzonico deriva in qualche modo dal suo carattere un po’ ribelle, dal suo essere irrequieta e dalla necessità di assorbire tutto dal presente, guardando al futuro con la serenità di chi lo accetta semplicemente per quello che da, senza pretesa di volerlo asservire ai propri desideri. Questo particolare modo di essere, consente a Paola di sentirsi più libera e di apprezzare le piccole cose della vita alle stregua di piccole preziose gemme incontrate per caso sul proprio cammino. 

Nata e cresciuta nella Svizzera romanda, Paola vive in Ticino dal 2002 e nel 2011 ha aperto ad Arosio il suo atelier nel quale lavora e propone workshop di varie discipline creative. Dotata di un grande senso dello spazio, nelle sue opere ritroviamo spesso tanta di quella purezza ed essenzialità che caratterizza l’arte giapponese ch’essa ama particolarmente. L’essenzialità delle composizioni fa si che nelle sue opere le forme non vengano mai rappresentate in modo netto con confini ben definiti. Il messaggio che trasmettono non è di un universo ben ordinato e diviso fra concetti diverse e distinte fra loro; al contrario, esiste sempre un confine labile in cui il primo piano e sfondo si fondono senza perdere la propria identità. 

Il tipo di linguaggio adoperato da Paola nelle sue opere si esprime attraverso una relazione che coinvolge l’osservatore e l’opera stessa, le astrazioni cromatiche sono un elemento di attrazione per lo spettatore, il quale viene imprigionato all’interno della composizione. Il pubblico è catturato in un viaggio spirituale all’interno della creazione artistica, ma non si tratta di un viaggio allucinatorio: è il continuo ciclo del nascere, del vivere e del morire ad essere espresso dall’artista nelle sue intriganti tracce d’arte, quasi un alfabeto nuovo che descrive con ricchezza di dettagli il travaglio dell’anima. Paola riesce con la sua vena artistica a suscitare e risuscitare atmosfere immateriali, atmosfere non terrene rese sublimi grazie al colore e ai lampi di luce che le attraversano. È così che Paola ci porta oltre la tridimensionalità terrena verso un tonalismo non più legato alla raffigurazione naturalistica degli elementi. 

Costantemente curiosa di sperimentare, partecipare, condividere, Paola fa sue le parole di Agnés Varda: “Dans la création, il y a le désir d’être heureux et en même temps, de servir à quelque chose” ed è sulla base di questo non banale concetto ch’ella guarda con ottimismo davanti a se, collezionando le preziose gemme che il destino dispensa sul suo cammino dispensandole liberamente per raccontare con il suo personalissimo linguaggio le emozioni essenziali dell’animo umano.

a cura di Walter Ghidini

Gonca Perunkovska

È curioso pensare a quante sensazioni trasmette un minuscolo attimo di eternità attraverso una fotografia; probabilmente parte della meraviglia e dello stupore ch’esso regala è proprio in questo fantastico fermo immagine, in questo suo essere regalo silenzioso, flash back di una vita che non torna mai uguale.

Le atmosfere di Gonca Perunkovska insegnano a rallentare e riflettere, a lasciarsi andare alla malinconia che ci assale quando ci troviamo ad osservare orizzonti lontani che paiono trascendere il mondo reale. Ecco che allora ogni parola è inappropriata, e spetta alla fotografia raccontare, come può, il tempo perduto, di quella sensazione che, dimenticata, si consolida e si propaga come il riverbero luminoso di una scintilla di speranza. Di origine macedone e di formazione economista, Gonca Perunkovska vive in Svizzera da circa 15 anni.

Nel suo passato c’è sempre stato poco spazio per l’arte e la fotografia in particolare, che era vissuta più come una passione con la quale collezionare ricordi di viaggio e poco più. Guardando le fotografie di Gonca è sorprendente scoprire come esse siano state tutte realizzate nell’ultimo anno, da quando cioè Gonca ha deciso di trasformare la sua semplice passione in qualcosa di più serio.

Come un fuoco che cova sotto la brace, la sua sensibilità si è mostra in un attimo in tutta la maturità, come i lampi di luce che attraversano alcune delle sue immagini più belle. Dopo un breve corso di introduzione alla tecnica fotografica e tanta applicazione, in pochissimo tempo Gonca mostra già d’aver preso possesso di uno stile che la caratterizza e fa di lei un’artista a pieno merito.

Le sue composizioni sono eleganti ed equilibrate ed i giochi di luce, mai banali o vistosi, svelano atmosfere inattese e orizzonti lontani. Gonca è attratta dalla bellezza degli orizzonti immensi e lontani che la conducono con un pizzico di nostalgia alla sua terra natale. Nelle sue fotografie la presenza umana è praticamente assente se non come sentore del vissuto che certi luoghi trasmettono con la loro aria abbandonata ma pregna della fatica e della quotidianità d’un tempo che non c’è più.

Se ogni fotografia è un cristallo di tempo, così sono anche i paesaggi di Gonca che restituiscono a chi li guarda il riflesso del tempo perduto, dell’emozione intrattenibile, della malinconia del distacco e, contemporaneamente, la speranza del ricongiungimento.

Gonca Perunkovska ha appena iniziato a parlarci di se con il linguaggio della fotografia ma è certo che il suo “scrivere con la luce” ha tantissimo da raccontare e noi, osservatori attenti, non ci lasceremo sfuggire l’occasione di leggere i prossimi capitoli.

a cura di Walter Ghidini

Katia Mandelli Ghidini

L’arte è l’esigenza di tradurre il proprio sentire in forme espressive che ne sintetizzino i contenuti. 

L’artista sa bene quanto forte e irresistibile diventa a volte la voglia di “creare”, quasi una necessità che non si placa fino al momento in cui una superificie piana o la materia stessa non siano state finalmente plasmate. 

Si sa che in campo artistico l’utilizzo d’ogni forma espressiva è legittimato dall’impossibilità di porre limiti alla sperimentazione e la storia dell’arte ci insegna che, spesso, sono state proprio le provocazioni più che l’esercizio stilistico a marcarne l’evoluzione. 

Tra le forme espressive più recenti annoveriamo senz’altro l’arte digitale, nello sviluppo della quale computer, tavolette grafiche e mouse hanno preso il posto di pennelli e tavolozze. 

Nel linguaggio comune si tende spesso a identificare con il termine “digitale” tutto l’universo dei computer la cui caratteristica più nota è la ripetibilità, al contrario dell’arte nella quale l’unicità è ancora caratteristica dominante nella determinazione del valore. 

Si sarebbe pertanto portati a definire come incompatibili i due universi ma, se guardiamo oltre lo steccato del pregiudizio, vediamo negli strumenti digitali una moltitudine di nuove opportunità espressive che aspettano solo d’essere scoperte. 

Uno dei maggiori esponenenti della pop-art, Andy Warhol, ebbe a dire che l’ipotesi di poter disporre dell’attuale tecnologia ai tempi in cuì ebbe inizio il suo tragitto artistico, gli avrebbe aperto non uno ma mille universi creativi ciascuno denso di possibilità. 

Lo strumento digitale in mano all’artista è dunque da intendersi alla stregua di qualsiasi altro utensile o tecnica espressiva.

Nelle opere ch’essa definisce “Digital_Art”, Katia Mandelli Ghidini utilizza le dita per simulare i pennelli ed un tablet per simulare la tela ma lascia che sia l’apporto materico tradizionale a “sigillare” l’opera digitale. 

Ne deriva una gradevole miscela di tecniche che mostra una volta di più quanto sia impossibile imbrigliare la creatività dell’artista e limitarne la comprensione al mero utilizzo d’una tecnica piuttosto che l’altra. 

Artista sensibile e dinamica, Katia ci ha abituati a non dare nulla per scontato e anche questa volta ci sorprende con una collezione di grande impatto cromatico ed emotivo.